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Indebolito dalle defezioni, il governo
Bennett-Lapid annuncia lo scioglimento. Israele tornerà al voto per la quinta
volta in meno di quattro anni e Netanyahu punta a riprendersi la scena
politica.
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Israele tornerà ai seggi per la quinta volta in tre anni e mezzo. Dopo
poco più di un anno il governo di coalizione di Naftali Bennett e Yair Lapid getta
la spugna e annuncia che tra pochi giorni il parlamento voterà sullo
scioglimento della Knesset. Una volta approvata, come
da accordi presi a inizio legislatura, Lapid diventerà primo ministro ad interim,
per traghettare però il paese verso nuove
elezioni ad ottobre. I due leader hanno spiegato di aver “esaurito le
opzioni per stabilizzare l’eterogenea coalizione di maggioranza”, che conta al
suo interno otto partiti comprese forze di sinistra e della destra nazionalista, e
che dallo scorso mese in realtà è divenuta minoranza
parlamentare dopo un lento ma implacabile stillicidio
di abbandoni da parte dei propri deputati. Si chiude così, dopo un
tormentato anno segnato da tensioni e scontri, la prima esperienza di governo
dell’era post Benjamin Netanyahu, oggi a capo dell’opposizione. Proprio l’ex
premier – sotto processo per truffa e corruzione – sarà inevitabilmente uno dei
protagonisti della prossima campagna elettorale e probabile vincitore delle
votazioni. Se così fosse, osserva
Ugo Tramballi, “Considerando che il Likud non è più da tempo un
partito di centro-destra ma sempre più di destra radicale e anti-palestinese,
quello che potrebbe uscire dalle prossime elezioni è l’esecutivo più di destra della storia contemporanea d’Israele”.
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Cosa ha portato allo scioglimento?
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La decisione di Bennet di cui – secondo i
media israeliani – né il ministro della Difesa né quello degli interni erano a
conoscenza, è stata accolta con sorpresa nei corridoi della Knesset. Ma che il
governo fosse in bilico era cosa nota a
tutti: nato con un solo seggio in più rispetto all’opposizione, l’esecutivo
aveva
perso la maggioranza in parlamento a maggio, passando da 61 a 60 seggi su
120. Il vero ‘schiaffo’ è arrivato
però agli inizi di giugno quando l’aula ha
rigettato il ‘West Bank bill’, il provvedimento – rinnovato ogni cinque
anni fin dal 1967 – che estende le leggi di diritto israeliane ai residenti
degli insediamenti ebraici in Cisgiordania. La mancata approvazione è stata un
duro colpo per il governo, il cui scioglimento determinerà ora una proroga automatica del disegno di legge. A
traghettare il paese verso il voto – come stabilito negli accordi di governo in
cui per la prima volta partecipava
un partito arabo islamista – sarà il centrista
Lapid, attuale ministro degli Esteri. Sarà lui – con ogni probabilità – ad accogliere il prossimo 13 e 14 luglio il
presidente americano Joe Biden in visita in Medio Oriente. Un passaggio non
scontato, agevolato dal comportamento ‘responsabile’ di Bennett ma che non
tutti in Israele vedono di buon occhio. E che qualcuno, come l’ex premier
Netanyahu, potrebbe cercare di mandare a monte.
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Con un governo dimissionario in carica, la corsa alle proiezioni è già iniziata.
Secondo il primo sondaggio, realizzato
da Radio 103 FM i partiti dell’attuale coalizione di governo otterrebbero insieme
55 seggi, mentre l’ex premier Benjamin Netanyahu e il suo blocco porterebbero a
casa 59 dei 61 seggi necessari. Una
situazione di stallo, simile a quelle che si sono susseguite negli ultimi
tre anni, in cui nessuno dei due blocchi otterrebbe la maggioranza, richiedendo
la formazione di un governo di minoranza che riceva il sostegno di partiti
esterni alla coalizione. Intanto, all’interno delle diverse formazioni, il
dibattito è aperto: Naftali Bennett, contrariamente
alle voci che lo danno prossimo al ritiro dalla politica, sarebbe pronto a candidarsi ancora una volta come
leader del partito della destra religiosa Yamina, ma secondo le stime le
sue probabilità di superare la soglia elettorale sono scarse. Lapid, da parte
sua, cercherà di posizionare il suo partito Yesh Atid come leader del blocco di centro-sinistra,
anche a spese dei suoi attuali partner della coalizione, Partito Laburista e
Meretz. Ma è a destra della mappa
politica che si prepara il campo per una vera e propria battaglia. Se tra i
partiti Haredi c’è agitazione per il deputato di estrema destra Itamar
Ben-Gvir, la cui agenda politica sta guadagnando popolarità tra i giovani, nel
Likud, dove presto si terranno le primarie, l’obiettivo dichiarato è boicottare
il progetto di un
abbassamento dello sbarramento elettorale.
Una simile iniziativa – è timore condiviso – dividerebbe il blocco di destra e
porterebbe alla nascita di nuove fazioni politiche.
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Israele si trova di fronte all’ennesima
campagna elettorale mentre il paese attraversa una
nuova ondata di attacchi e violenze contro i palestinesi, scontri nei luoghi santi di Gerusalemme
e un’escalation delle tensioni con l’Iran. Eppure in un video
pubblicato ieri sui social, l’ex premier Benjamin Netanyahu – ancora sotto
processo a Gerusalemme – ha esultato dopo
aver lavorato per mesi al logorio dell'esecutivo attraverso gli uomini di
destra della coalizione di maggioranza: “Questo governo fallimentare è arrivato
al capolinea”, ha detto il leader del Likud, promettendo che insieme ai suoi
alleati formerà “un esecutivo allargato che ridurrà le tasse, condurrà Israele
verso successi enormi, inclusa l’estensione dell’area della pace. Un governo –
ha aggiunto – che restituirà a Israele il
suo orgoglio nazionale”. Così, mentre i partiti religiosi ultraortodossi
attribuiscono a
un intervento divino lo scioglimento dell’esecutivo, nato sotto lo slogan
“tutti tranne Netanyahu”, una dura battaglia attende il paese nei prossimi mesi.
Lo ha chiarito in un'intervista
radiofonica Gideon Saar – attuale ministro della giustizia ed ex alleato
del leader del Likud – che ha promesso ancora una volta che “non siederà mai
con Netanyahu”. Il capo del partito New Hope ha lanciato la
sua campagna twittando: “L'obiettivo di queste elezioni è chiaro: impedire
il ritorno al potere di Netanyahu e l'assoggettamento degli interessi del paese
al suo interesse personale”.
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