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21 giugno 2022

ISRAELE: RITORNO AL VOTO

Indebolito dalle defezioni, il governo Bennett-Lapid annuncia lo scioglimento. Israele tornerà al voto per la quinta volta in meno di quattro anni e Netanyahu punta a riprendersi la scena politica.

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Israele tornerà ai seggi per la quinta volta in tre anni e mezzo. Dopo poco più di un anno il governo di coalizione di Naftali Bennett e Yair Lapid getta la spugna e annuncia che tra pochi giorni il parlamento voterà sullo scioglimento della Knesset. Una volta approvata, come da accordi presi a inizio legislatura, Lapid diventerà primo ministro ad interim, per traghettare però il paese verso nuove elezioni ad ottobre. I due leader hanno spiegato di aver “esaurito le opzioni per stabilizzare l’eterogenea coalizione di maggioranza”, che conta al suo interno otto partiti comprese forze di sinistra e della destra nazionalista, e che dallo scorso mese in realtà è divenuta minoranza parlamentare dopo un lento ma implacabile stillicidio di abbandoni da parte dei propri deputati. Si chiude così, dopo un tormentato anno segnato da tensioni e scontri, la prima esperienza di governo dell’era post Benjamin Netanyahu, oggi a capo dell’opposizione. Proprio l’ex premier – sotto processo per truffa e corruzione – sarà inevitabilmente uno dei protagonisti della prossima campagna elettorale e probabile vincitore delle votazioni. Se così fosse, osserva Ugo Tramballi, “Considerando che il Likud non è più da tempo un partito di centro-destra ma sempre più di destra radicale e anti-palestinese, quello che potrebbe uscire dalle prossime elezioni è l’esecutivo più di destra della storia contemporanea d’Israele”.

Cosa ha portato allo scioglimento?

La decisione di Bennet di cui – secondo i media israeliani – né il ministro della Difesa né quello degli interni erano a conoscenza, è stata accolta con sorpresa nei corridoi della Knesset. Ma che il governo fosse in bilico era cosa nota a tutti: nato con un solo seggio in più rispetto all’opposizione, l’esecutivo aveva perso la maggioranza in parlamento a maggio, passando da 61 a 60 seggi su 120. Il vero ‘schiaffo’ è arrivato però agli inizi di giugno quando l’aula ha rigettato il ‘West Bank bill’, il provvedimento – rinnovato ogni cinque anni fin dal 1967 – che estende le leggi di diritto israeliane ai residenti degli insediamenti ebraici in Cisgiordania. La mancata approvazione è stata un duro colpo per il governo, il cui scioglimento determinerà ora una proroga automatica del disegno di legge. A traghettare il paese verso il voto – come stabilito negli accordi di governo in cui per la prima volta partecipava un partito arabo islamista – sarà il centrista Lapid, attuale ministro degli Esteri. Sarà lui – con ogni probabilità – ad accogliere il prossimo 13 e 14 luglio il presidente americano Joe Biden in visita in Medio Oriente. Un passaggio non scontato, agevolato dal comportamento ‘responsabile’ di Bennett ma che non tutti in Israele vedono di buon occhio. E che qualcuno, come l’ex premier Netanyahu, potrebbe cercare di mandare a monte.

Cosa succede adesso?

Con un governo dimissionario in carica, la corsa alle proiezioni è già iniziata. Secondo il primo sondaggio, realizzato da Radio 103 FM i partiti dell’attuale coalizione di governo otterrebbero insieme 55 seggi, mentre l’ex premier Benjamin Netanyahu e il suo blocco porterebbero a casa 59 dei 61 seggi necessari. Una situazione di stallo, simile a quelle che si sono susseguite negli ultimi tre anni, in cui nessuno dei due blocchi otterrebbe la maggioranza, richiedendo la formazione di un governo di minoranza che riceva il sostegno di partiti esterni alla coalizione. Intanto, all’interno delle diverse formazioni, il dibattito è aperto: Naftali Bennett, contrariamente alle voci che lo danno prossimo al ritiro dalla politica, sarebbe pronto a candidarsi ancora una volta come leader del partito della destra religiosa Yamina, ma secondo le stime le sue probabilità di superare la soglia elettorale sono scarse. Lapid, da parte sua, cercherà di posizionare il suo partito Yesh Atid come leader del blocco di centro-sinistra, anche a spese dei suoi attuali partner della coalizione, Partito Laburista e Meretz. Ma è a destra della mappa politica che si prepara il campo per una vera e propria battaglia. Se tra i partiti Haredi c’è agitazione per il deputato di estrema destra Itamar Ben-Gvir, la cui agenda politica sta guadagnando popolarità tra i giovani, nel Likud, dove presto si terranno le primarie, l’obiettivo dichiarato è boicottare il progetto di un abbassamento dello sbarramento elettorale. Una simile iniziativa – è timore condiviso – dividerebbe il blocco di destra e porterebbe alla nascita di nuove fazioni politiche.

   

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Il ritorno di Netanyahu?

Israele si trova di fronte all’ennesima campagna elettorale mentre il paese attraversa una nuova ondata di attacchi e violenze contro i palestinesi, scontri nei luoghi santi di Gerusalemme e un’escalation delle tensioni con l’Iran. Eppure in un video pubblicato ieri sui social, l’ex premier Benjamin Netanyahu – ancora sotto processo a Gerusalemme – ha esultato dopo aver lavorato per mesi al logorio dell'esecutivo attraverso gli uomini di destra della coalizione di maggioranza: “Questo governo fallimentare è arrivato al capolinea”, ha detto il leader del Likud, promettendo che insieme ai suoi alleati formerà “un esecutivo allargato che ridurrà le tasse, condurrà Israele verso successi enormi, inclusa l’estensione dell’area della pace. Un governo – ha aggiunto – che restituirà a Israele il suo orgoglio nazionale”. Così, mentre i partiti religiosi ultraortodossi attribuiscono a un intervento divino lo scioglimento dell’esecutivo, nato sotto lo slogan “tutti tranne Netanyahu”, una dura battaglia attende il paese nei prossimi mesi. Lo ha chiarito in un'intervista radiofonica Gideon Saar – attuale ministro della giustizia ed ex alleato del leader del Likud – che ha promesso ancora una volta che “non siederà mai con Netanyahu”. Il capo del partito New Hope ha lanciato la sua campagna twittando: “L'obiettivo di queste elezioni è chiaro: impedire il ritorno al potere di Netanyahu e l'assoggettamento degli interessi del paese al suo interesse personale”.

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