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EUROPA: ECONOMIA DI GUERRA

  • Settimana scorsa il Primo ministro Draghi aveva dichiarato che l’Italia e l’Europa non erano in un’economia di guerra, ma che ci saremmo dovuti preparare. Adesso i contorni di questa economia di guerra appaiono sempre più chiari, e sarà cruciale continuare a studiarli per permettere ai paesi europei di prepararsi al meglio.
  • Nelle prime settimane di conflitto tra Russia e Ucraina, l’economia Ue ha già perso lo 0,5% di crescita economica. Negli scenari peggiori, il rallentamento potrebbe essere ancora superiore (fino al 2% del PIL). Sempre molto meno rispetto a ciò che potrebbe accadere in Russia (-10%), ma pur sempre un rallentamento significativo.
  • Rispetto a inizio marzo lo shock sulle materie prime sembra stare rientrando, ma i prezzi rimangono molto più elevati rispetto a inizio crisi, e si inseriscono in un contesto di aumenti già molto netti da almeno un anno.
  • Gli effetti più forti del conflitto saranno quelli indiretti: i costi dell’energia, in particolare, stanno mettendo e continueranno a mettere in seria difficoltà le industrie europee. Soprattutto quelle più energivore, ma non solo.
  • Lo spettro della stagflazione (bassa crescita e alta inflazione) è una minaccia sempre più concreta. A determinare le sorti dell’economia europea sarà tuttavia soprattutto la durata del periodo di stagflazione (“solo” un anno o di più?). Da questa dipende la probabilità che il rallentamento economico e il rialzo dei prezzi, insieme, abbiano o meno un forte impatto sulla tenuta complessiva dei sistemi economici europei.

L’Europa aveva appena cominciato a vedere la luce in fondo al tunnel della pandemia, quando è arrivato il conflitto tra Russia e Ucraina a cambiare nuovamente le prospettive mettendo in dubbio la ripresa economica. Secondo le ultime previsioni pubblicate dalla Banca Centrale Europea, l’impatto della guerra sulla crescita in Eurozona sarà quasi sicuramente elevato.

Le conseguenze derivanti dalla prima settimana di invasione avrebbero già ridotto la crescita dello 0,5% (dal 4,2% previsto a inizio anno a un 3,7% oggi). Inoltre, se gli scontri dovessero proseguire e le sanzioni ulteriormente inasprirsi, il prezzo in termini di crescita mancata potrebbe essere ben più salato, arrivando a un taglio della crescita di un ulteriore 1,4% rispetto alle previsioni ad oggi più “ottimistiche”.

In che modo la guerra in Ucraina finirebbe con l’impattare sulla crescita dell’Eurozona? Innanzitutto, c’è lo shock di offerta generato sui mercati dell’energia e delle commodities (minerarie e agricole), shock che sta portando a un incremento duraturo dei prezzi (contribuendo dunque a mantenere l’inflazione a livelli elevati). Inoltre, i nuovi “colli di bottiglia” che si sono generati lungo le supply chains stanno già causando problemi a diversi settori manifatturieri europei (soprattutto automotive e agroalimentare). Infine questa situazione – unitamente alla forte instabilità geopolitica – contribuirà a mantenere alta la volatilità sui mercati finanziari, scoraggiando le decisioni di investimento di imprese e fondi. Con effetti che proseguiranno molto probabilmente anche nel 2023.

     

La guerra tra Russia e Ucraina si inserisce in un contesto già difficile per le materie prime, accelerando un trend al rialzo iniziato con la ripresa post-pandemia. Nel caso del conflitto si tratta di un vero e proprio shock dal lato dell’offerta, alimentato, oltre che dai blocchi alle esportazioni, dai rischi di interruzione delle forniture di diverse commodities fondamentali. Prime fra tutte quelle energetiche: i prezzi spot del gas olandese (Dutch TTF) sono più che raddoppiati nei giorni successivi all’invasione russa, raggiungendo il valore record di 345 euro per Megawattora l’8 marzo scorso: dieci volte i valori di inizio 2021. Le sanzioni alla Russia hanno poi fatto perdere l’interesse del mercato per il petrolio russo (Ural), spingendo le quotazioni del Brent al rialzo e riportando in auge perfino il carbone come fonte energetica: dopo l'invasione, il suo prezzo è cresciuto di oltre il 50%.

Non solo energia: alle stelle è andato anche il prezzo del nickel, indispensabile per l’industria siderurgica, al punto da venire sospeso due volte sulla borsa di Londra per eccesso di rialzo. Gli effetti di questo shock arrivano, infine, anche sulle tavole di tutto il mondo: l’importanza di Ucraina e Russia nella produzione globale di cereali ha fatto crescere di oltre il 20% anche le quotazioni del grano. Oltre all’impennata dei prezzi delle materie prime, per gli attori economici pesa la grande volatilità degli indici di commodities importate dalla Russia, in una dinamica di forte incertezza che rappresenta essa stessa un costo per tutti gli operatori economici.


     

Cosa significa “shock dell’offerta” per i mercati energetici? Negli ultimi mesi in Europa ci siamo molto concentrati sul prezzo del gas naturale, dal momento che prima della crisi la Russia soddisfaceva il 40% dell’intera domanda Ue. Ma il possibile shock sul mercato petrolifero rappresenta una sfida altrettanto elevata, in questo non solo per l’Europa ma per il mondo intero.

Nel grafico qui sopra si possono intuire le dimensioni della sfida: in caso le sanzioni (o auto-sanzioni da parte di compratori timorosi di nuove sanzioni o di boicottaggi da parte dei consumatori) escludessero dal mercato l’intera quota di esportazioni russe, le perdite ammonterebbero al 7,5% della domanda mondiale. Si tratterebbe di uno shock di offerta più grande persino delle due crisi petrolifere degli anni Settanta, la prima delle quali costrinse l’Occidente a un periodo di austerity e rischiò di spingere il mondo verso la stagflazione (v. infra).

Certo, è altamente improbabile che le esportazioni russe non riescano a raggiungere per molto tempo i mercati mondiali. Ciò è vero in particolare perché un gruppo di grandi paesi importatori di greggio e derivati (tra loro, Cina e India) non ha in programma di adottare sanzioni, e anzi si sta muovendo attivamente per acquistare quel petrolio russo a forte sconto. Per questo motivo è probabile che lo shock di offerta sia nettamente inferiore, e che sia anche questa la ragione per la quale i prezzi del greggio nel corso dell’ultima settimana sono tornati a scendere.

     

Se l’esposizione energetica europea verso la Russia è piuttosto elevata, la fotografia cambia radicalmente dal punto di vista commerciale e finanziario. Le esportazioni di beni alla Russia rappresentano solo lo 0,6% del PIL dell’Unione europea, mentre lo stock totale di IDE si attesta a circa il 2,3% del PIL Ue. Mosca non costituisce una meta particolarmente ambita per gli investitori comunitari: le sanzioni che hanno seguito l’annessione russa della Crimea, il rischio politico e la bassa diversificazione dell’economia non rendono la Russia – al netto degli idrocarburi – un partner economico ideale. L'esposizione totale risulta quindi piuttosto limitata per l’Unione europea e ancor più ridotta per le grandi economie dell’Eurozona.

Tuttavia, per alcuni Stati Membri un eventuale azzeramento di scambi e investimenti con la Russia avrebbe un peso notevole: la Lituania si trova esposta per oltre l’8% del proprio PIL – soprattutto per i forti legami commerciali – e anche per i Paesi Bassi il valore supera il 5%, fondamentalmente a causa degli elevati investimenti che dal paese si dirigono in Russia. Mosca pesa relativamente di più anche negli IDE di Londra, Berlino e Parigi, ma l’esposizione totale resta per tutti e tre sotto il 2% del PIL. Ancor più ridotta l’esposizione dell’Italia: meno dell’1%, un dato nazionale dietro al quale però si nascondono esposizioni maggiori, soprattutto a livello bancario, di singole aziende.

Insomma, anche nello scenario peggiore di una cessazione delle esportazioni e di perdita delle risorse investite in Russia, l’effetto sul PIL dei principali Paesi europei sarebbe piuttosto contenuto.

     

Ben diversa è invece la situazione quando si passa ad analizzare gli impatti economici indiretti del conflitto. L’aumento dei prezzi delle materie prime, soprattutto quelle energetiche, mette decisamente in difficoltà i sistemi economici di molti paesi del mondo.

Nel caso dei paesi europei, una conseguenza indiretta del conflitto che pesa molto è quella dell’aumento dei prezzi dell’energia, sia a livello mondiale (quello del petrolio e, in parte, del carbone), sia regionale (il gas naturale, in cui come detto la Russia occupa una posizione di mercato dominante). In particolare, i prezzi del gas naturale spot in Europa gravitano oggi a livelli di oltre cinque volte superiori rispetto a quelli di inizio 2021.

Nel comparto industriale e manifatturiero, a soffrire saranno soprattutto quelle aziende ad alta intensità energetica, ovvero quelle che utilizzano maggiore energia per produrre la stessa quantità di valore aggiunto. Tra loro troviamo i settori chimico e petrolchimico, quello della lavorazione dei minerali non metalliferi (come la ceramica, il vetro, il cemento, ecc.) o quelli per la produzione di legno e carta. Si tratta di settori che, insieme, costituiscono circa il 5% del PIL europeo.

Non è tuttavia detto che ci si fermi qui. Settori a bassa intensità energetica ma che contribuiscono molto al PIL europeo, come i mezzi di trasporto e l’edilizia (insieme, il 10% del PIL dell’UE a 27), potrebbero risultare comunque colpiti dall’aumento dei prezzi dei loro input, che siano a loro volta prodotti in Ue o in paesi terzi.

     

La “stagflazione” è una delle situazioni economiche peggiori che un paese possa trovarsi ad affrontare. Si tratta di uno scenario in cui, a fronte di una crescita del Pil bassa o addirittura negativa, l’inflazione rimane su livelli piuttosto elevati e comunque decisamente più alti dell’aumento del Pil. Il risultato è quello di un’economia sostanzialmente ferma o in recessione, che deve però far fronte ad un aumento generalizzato dei prezzi che erode il potere di acquisto delle famiglie.

Scenario che a oggi non sembra così distante per le economie europee. Se la situazione attuale dovesse protrarsi a lungo, con i prezzi di energia e generi alimentari alle stelle e l’inflazione complessiva che, nello scenario peggiore, quest'anno potrebbe superare il 7%, sarebbero i nuclei a reddito medio-basso (e dunque più vulnerabili dal punto di vista finanziario) ad essere maggiormente colpiti. Quella che è iniziata come una crisi dal lato dell’offerta si sposterebbe dunque in tempi relativamente rapidi sul lato della domanda, incidendo sul reddito disponibile di individui e famiglie e aggravando ulteriormente disoccupazione, povertà e disuguaglianze economiche e sociali, che erano già state amplificate dalla pandemia.

Situazioni di questo tipo non sono nuove: si tratterebbe di un ritorno a una situazione simile a quella vissuta in Europa negli anni Settanta. Oggi, tuttavia, le cose potrebbero andare anche peggio. Basti pensare che il sistema economico mondiale è sempre più integrato e dipende da sistemi di produzione e consegna just in time che risentono molto di shock nel breve periodo.

Inoltre il continente europeo, e in particolar modo l’Italia, viene già da un decennio di crescita relativamente bassa, indebolita dalla crisi finanziaria del 2007-2009, da quella del debito nel 2011-2013, e da quella pandemica nel 2020.

In conclusione: settimana scorsa il Primo ministro Draghi aveva dichiarato che l’Italia (e l’Europa) non erano in un’economia di guerra, ma che ci saremmo dovuti preparare. Adesso i contorni di questa economia di guerra appaiono sempre più chiari, e sarà cruciale continuare a seguirli per permettere ai paesi europei di prepararsi al meglio.

     


A cura di ISPI DataLab e ISPI Osservatorio Geoeconomia


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