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20 dicembre 2021

DEMOCRAZIA TARGATA HONG KONG

Astensionismo record alle legislative di Hong Kong riservate ai “patrioti”. Ma Pechino difende “la nuova democrazia con caratteristiche locali”.

   

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È l’astensionismo il dato che sarà ricordato, più di ogni altro, nella recente tornata elettorale a Hong Kong, la prima con il nuovo sistema per soli 'patrioti' imposto dal governo di Pechino. Solo il 30% degli aventi diritto si è recato ai seggi: un minimo storico che supera di molto l’ultima elezione in cui gli honkonghesi avevano disertato il voto, quella del 2000, dove comunque l’affluenza complessiva era prossima al 45%, mentre all'ultima tornata, nel 2016, il dato finale ha sfiorato il 60%. Il voto per il rinnovo del parlamento locale interessava 4,5 milioni di elettori. Nonostante le 14 ore di apertura dei seggi, soltanto 1 milione e 350mila aventi diritto ha votato. “Il nuovo Consiglio legislativo (LegCo), eletto col modello revisionato, aumenterà l'efficacia amministrativa della Regione speciale. Siamo sulla giusta via per il buon governo”, ha dichiarato la governatrice di Hong Kong, Carrie Lam, in partenza per Pechino per informare i leader statali dei “progressi” in campo economico, sociale e politico nell'ex colonia britannica. Secondo gli osservatori però i numeri parlano chiaro: dopo un anno e mezzo di repressione, una stretta sui diritti politici, gli arresti e le liste di proscrizione e la riforma della legge elettorale, il processo di voto ha perso ogni credibilità agli occhi della popolazione.

Un rinvio mirato?

Il rinnovo del consiglio legislativo di Hong Kong avrebbe dovuto tenersi il 6 settembre del 2020. Il governo di Hong Kong aveva deciso di rinviare il voto per contenere la pandemia da coronavirus, ma l’opposizione si era rivoltata accusando l’esecutivo di voler impedire alle persone di votare.

Un’accusa corroborata dal fatto che le forze di opposizione avevano stravinto da poco le elezioni per i consigli distrettuali: all’appuntamento si era registrato un tasso di votanti del 71% e i candidati democratici avevano ottenuto 396 seggi su 452. Un exploit senza precedenti che aveva alimentato la convinzione che le forze democratiche del ‘porto profumato’ avrebbero potuto imporsi anche nel parlamento locale. Ma soprattutto un risultato che dimostrava, al di là di ogni dubbio, che la maggioranza silenziosa degli hongkonghesi era nettamente schierata con i manifestanti scesi in piazza nelle ultime settimane. Un duro colpo alla credibilità della governatrice Carrie Lam che aveva più volte definito i disordini frutto di “una minoranza abilmente manovrata dall’esterno”. la reazione di Pechino non si è fatta attendere: il 30 giugno 2020 il parlamento cinese ha varato una legge sulla sicurezza nazionale che prevede il carcere a vita per la sedizione e la repressione per ogni forma di dissenso politico. La normativa ha portato a un’ondata di arresti tra gli attivisti e allo scioglimento del Demosistō, il più noto movimento per la democrazia a Hong Kong. 

Referendum su Pechino?

Allo stato attuale, dunque, il boicottaggio delle elezioni resta l’ultima forma di resistenza consentita alle forze pro-democratiche dell’arcipelago. “Naturalmente, il governo non ammetterà che si tratti di una sorta di referendum sulla loro performance, ma gli elettori sanno bene che queste elezioni non riguardano davvero chi ottiene i seggi”, spiega Kenneth Chan al quotidiano britannico The Guardian. “Il basso tasso di affluenza a Hong Kong indica fino a che punto le persone qui sono soddisfatte dello stato delle cose”. Per incoraggiare le persone a votare, il governo ha dato ai residenti la possibilità di viaggiare gratuitamente sui mezzi pubblici il giorno delle elezioni e sono stati istituiti seggi elettorali ai confini con la Cina continentale per consentire a coloro che vivono sulla terraferma di esprimere la propria preferenza. Un totale di 153 candidati, approvati dal governo e ritenuti dunque onesti ‘patrioti’, si è presentato per i 90 seggi. Ma anche il numero di seggi eletti a suffragio è stato drasticamente ridotto passando da 35 a 20 su un totale salito da 70 a 90. Di questi, 82 sono stati vinti da membri del campo pro-establishment e pro-Pechino.

Nonostante le critiche provenienti da diversi paesi, Pechino ha rivendicato le elezioni a Hong Kong come “un grande successo”.

Democrazia Honkonghese?

In un comunicato pubblicato poche ore dopo l'annuncio dei risultati, la Cina fornisce la sua visione delle cose: Hong Kong sta entrando in una nuova fase di “ordine ripristinato” a seguito dei cambiamenti recentemente introdotti. Nel documento, intitolato ‘Hong Kong Democratic Progress Under the Framework of One Country, Two Systems’, Pechino delinea quella che definisce “la democrazia con caratteristiche di Hong Kong” e insiste sul fatto di aver “fornito un supporto costante alla Regione amministrativa speciale nello sviluppo del suo sistema democratico”, fin dall'attuazione del principio “un paese, due sistemi”. In base a tale principio, Pechino sostiene che a Hong Kong vengono riservate alcune caratteristiche democratiche che non sono presenti in nessun'altra parte della Cina continentale. Il white paper, il cui testo integrale è riportato dai principali organi di stampa vicini al governo di Pechino, accusa inoltre “agitatori anti-cinesi” di aver causato “dannosi disordini sociali” a Hong Kong e definisce “un pretesto” i loro tentativi di organizzare proteste a favore della democrazia. Per questo, le riforme elettorali e la legge sulla sicurezza nazionale introdotte da Pechino – spiega ancora il testo – hanno aperto la strada per affrontare “i sintomi e le cause profonde dei disordini” e il “ripristino dell'ordine” a Hong Kong.

   

IL COMMENTO

di Alessia Amighini, Co-Head ISPI Asia Centre, Programma Cina

“Pechino ha ridotto drasticamente la proporzione di legislatori che possono essere votati direttamente dal popolo; ha fatto in modo che i candidati dovessero essere controllati da un comitato separato e ha dato i seggi al comitato elettorale, un gruppo molto vicino agli interessi della Cina. Solo 20 dei 90 seggi legislativi sono stati eletti direttamente dal pubblico. Quasi la metà è stata scelta dal comitato elettorale pro-Pechino e il resto è stato scelto da gruppi di interesse speciali come gli affari e il commercio - che storicamente propendono per Pechino. Nella sfiducia diffusa che andare a votare facesse una differenza, non c’è da stupirsi se poco più del 30% sia andato alle urne”.  

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