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DEMOCRAZIA TARGATA HONG KONG
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Astensionismo record alle legislative di Hong Kong
riservate ai “patrioti”. Ma Pechino difende “la nuova democrazia con
caratteristiche locali”.
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È l’astensionismo
il dato che sarà ricordato, più di ogni altro, nella recente tornata elettorale
a Hong Kong, la prima con il nuovo
sistema per soli 'patrioti' imposto dal
governo di Pechino. Solo il
30% degli aventi diritto si è recato ai seggi: un minimo storico che supera
di molto l’ultima elezione in cui gli honkonghesi avevano disertato il voto,
quella del 2000, dove comunque l’affluenza complessiva era prossima al 45%,
mentre all'ultima tornata, nel 2016, il dato finale ha sfiorato il 60%. Il voto
per il rinnovo del parlamento locale interessava 4,5 milioni di elettori. Nonostante le 14 ore di apertura dei
seggi, soltanto 1 milione e 350mila aventi diritto ha votato. “Il nuovo
Consiglio legislativo (LegCo), eletto col modello revisionato, aumenterà
l'efficacia amministrativa della Regione speciale. Siamo sulla giusta via per
il buon governo”, ha
dichiarato la governatrice di Hong Kong, Carrie Lam, in partenza per Pechino per informare i leader statali dei
“progressi” in campo economico, sociale e politico nell'ex colonia britannica. Secondo
gli osservatori però i
numeri parlano chiaro: dopo un anno e mezzo di repressione, una stretta sui
diritti politici, gli arresti e le liste di proscrizione e la riforma della
legge elettorale, il processo di voto ha
perso ogni credibilità agli occhi della popolazione.
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Il rinnovo del consiglio legislativo di Hong Kong
avrebbe dovuto tenersi il 6 settembre
del 2020. Il governo di Hong Kong aveva deciso di rinviare il voto per
contenere la pandemia da coronavirus, ma l’opposizione si era rivoltata accusando
l’esecutivo di voler impedire alle
persone di votare.
Un’accusa corroborata dal fatto che le forze di
opposizione avevano
stravinto da poco le elezioni per i consigli distrettuali: all’appuntamento si era registrato un tasso di votanti del
71% e i candidati democratici avevano ottenuto 396 seggi su 452. Un exploit senza precedenti che aveva
alimentato la convinzione che le forze democratiche del ‘porto profumato’ avrebbero
potuto imporsi anche nel parlamento locale. Ma soprattutto un risultato che
dimostrava, al di là di ogni dubbio, che la
maggioranza silenziosa degli hongkonghesi era nettamente schierata con i
manifestanti scesi
in piazza nelle ultime settimane. Un duro
colpo alla credibilità della governatrice Carrie Lam che aveva più volte
definito i disordini frutto di “una minoranza abilmente manovrata
dall’esterno”. la reazione di Pechino non si è fatta attendere: il 30 giugno 2020 il parlamento cinese ha
varato una legge sulla sicurezza nazionale che prevede il carcere a vita
per la sedizione e la repressione per ogni forma di dissenso politico. La
normativa ha
portato a un’ondata di arresti tra gli
attivisti e allo scioglimento del Demosistō, il più noto movimento
per la democrazia a Hong Kong.
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Allo stato attuale, dunque, il boicottaggio delle
elezioni resta l’ultima forma di resistenza consentita alle forze
pro-democratiche dell’arcipelago. “Naturalmente, il governo non ammetterà che
si tratti di una sorta di referendum sulla loro performance, ma gli elettori
sanno bene che queste elezioni non riguardano davvero chi ottiene
i seggi”, spiega Kenneth Chan al quotidiano britannico The Guardian. “Il basso tasso di affluenza a Hong Kong indica fino a che
punto le persone qui sono soddisfatte dello stato delle cose”. Per incoraggiare
le persone a votare, il governo ha dato ai residenti la possibilità di viaggiare gratuitamente sui mezzi pubblici
il giorno delle elezioni e sono stati istituiti seggi elettorali ai confini con la Cina continentale per consentire
a coloro che vivono sulla terraferma di esprimere la propria preferenza. Un
totale di 153 candidati, approvati dal governo e ritenuti dunque onesti
‘patrioti’, si è presentato per i 90 seggi. Ma anche il numero di seggi eletti a
suffragio è stato drasticamente ridotto passando da 35 a 20 su un totale salito da 70 a 90. Di questi, 82 sono stati vinti da membri del campo pro-establishment
e pro-Pechino.
Nonostante le critiche provenienti da diversi
paesi, Pechino ha rivendicato le elezioni a Hong Kong come “un grande
successo”.
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In un comunicato pubblicato poche ore dopo
l'annuncio dei risultati, la
Cina fornisce la sua visione delle cose: Hong
Kong sta entrando in una nuova fase di “ordine ripristinato” a seguito dei
cambiamenti recentemente introdotti. Nel documento, intitolato ‘Hong
Kong Democratic Progress Under the Framework of One Country, Two Systems’, Pechino delinea quella che definisce “la democrazia con
caratteristiche di Hong Kong” e insiste sul fatto di aver “fornito un supporto
costante alla Regione amministrativa speciale nello sviluppo del suo sistema
democratico”, fin dall'attuazione del principio “un paese, due sistemi”. In
base a tale principio, Pechino sostiene che a Hong Kong vengono riservate alcune caratteristiche democratiche che
non sono presenti in nessun'altra parte della Cina continentale. Il white paper, il cui testo integrale è
riportato dai principali organi di stampa vicini al governo di Pechino, accusa
inoltre “agitatori anti-cinesi” di
aver causato “dannosi disordini sociali” a Hong Kong e definisce “un pretesto”
i loro tentativi di organizzare proteste a favore della democrazia. Per questo,
le riforme elettorali e la legge sulla sicurezza nazionale introdotte da
Pechino – spiega ancora il testo – hanno aperto la strada per affrontare “i
sintomi e le cause profonde dei disordini” e il “ripristino dell'ordine” a Hong Kong.
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IL COMMENTO
di
Alessia Amighini, Co-Head ISPI Asia Centre, Programma Cina
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“Pechino ha ridotto drasticamente la proporzione
di legislatori che possono essere votati direttamente dal popolo; ha fatto in
modo che i candidati dovessero essere controllati da un comitato separato e ha
dato i seggi al comitato elettorale, un gruppo molto vicino agli interessi
della Cina. Solo 20 dei 90 seggi legislativi sono stati eletti direttamente dal
pubblico. Quasi la metà è stata scelta dal comitato elettorale pro-Pechino e il
resto è stato scelto da gruppi di interesse speciali come gli affari e il
commercio - che storicamente propendono per Pechino. Nella sfiducia diffusa che
andare a votare facesse una differenza, non c’è da stupirsi se poco più del 30%
sia andato alle urne”.
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