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26 novembre 2021

IL SUDAN GRIDA AL TRADIMENTO

Dopo il golpe i militari reintegrano il premier Hamdok, ma la piazza non crede all’accordo e denuncia: “Ci avete tradito”.

   

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Nuove proteste scuotono il Sudan dove decine di migliaia di manifestanti sono scesi per strada oggi nella capitale Khartoum per chiedere l’uscita dei militari dalla scena politica del paese. I manifestanti contestano l’accordo raggiunto dai generali con il premier Abdallah Hamdok, vittima di un golpe militare nel mese di ottobre e reintegrato la scorsa settimana nel suo ruolo dagli stessi militari che lo avevano destituito. Hamdok ha dichiarato di aver accettato di tornare come primo ministro per riprendere la transizione democratica e per fermare lo spargimento di sangue dei giovani sudanesi. Ha affermato anche di voler tutelare i progressi economici, in un paese alle prese con una crisi economica disastrosa, messi a segno grazie alle riforme introdotte da quando è entrato in carica, nel 2019. Ma il suo reintegro dopo quasi un mese passato agli arresti domiciliari solleva interrogativi su quale influenza potrà esercitare il governo e quanto questo sarà manipolato dai militari, guidati dal generale Abdel Fattah al-Burhan. Intanto nel paese proseguono le violenze: dal colpo di stato del 25 ottobre almeno 41 manifestanti sono stati uccisi e centinaia sono rimasti feriti. I movimenti di protresta non intendono fare sconti e promettono di non arretrare fino a quando i militari non accetteranno – come scandisce uno slogan diffuso nelle piazze - di “lasciare i palazzi e tornare nelle caserme”.

Un accordo con molti punti oscuri?

Siglato lo scorso 21 novembre dal Consiglio sovrano di transizione guidato dal generale Abdel Fattah al Burhan, l’accordo prevede il rilascio di tutti politici detenuti dopo il golpe, ma non stabilisce una data per la fine dello stato di emergenza nazionale annunciato dal generale stesso. Inoltre non fa riferimento agli equilibri di condivisione del potere stabiliti nell’accordo raggiunto nel 2019. Per questo l’intesa – che ha consentito ad Abdallah Hamdok di essere reintegrato – ha generato più di qualche sospetto. Dodici dei ministri del governo di transizione si sono dimessi in segno di protesta e l’intesa è stata respinta dalle forze di opposizione che hanno accusato Hamdok di “tradimento”. Cosa ancor più preoccupante: l’accordo non ha convinto i cittadini e le sigle dei movimenti per la democrazia, che hanno promesso di mantenere alta la pressione sui militari affinché smettano di interferire con la vita politica del paese. Dopo settimane passate a brandire la sua immagine per le strade, chiedendone il rilascio, alcuni manifestanti – riferisce Radio France Internationale – hanno strappato il suo ritratto, accusandolo di aver “tradito il sangue dei sudanesi”. Mentre l’Associazione dei professionisti sudanesi e le Forze della libertà e del cambiamento (Ffc), alleanze pro-democrazia che hanno svolto un ruolo chiave nella rivolta contro Bashir prima di diventare la base del sostegno al primo ministro, hanno definito la sua firma sotto l’accordo un “suicidio politico”.

L’uomo del compromesso?

“Se il popolo sudanese pensa che l'accordo non soddisfi i suoi interessi, presenterò le mie dimissioni”: Abdallah Hamdok spende tutto il suo capitale politico per convincere l’opinione pubblica sudanese a dargli credito. Ha spiegato che se i termini dell'accordo saranno applicati rigorosamente, si eviteranno ulteriori spargimenti di sangue e si conserverà il diritto di manifestare. Il premier ha poi aggiunto: “L’accordo è arrivato nel quadro del possibile. Certo potrebbe essere incompleto, ma ci sono molti aspetti positivi che potrebbero aprire la strada a degli sviluppi e comunque mira a evitare il rischio di scivolare in una guerra civile”. Ha sottolineato che la formazione di un esercito unificato e l'assorbimento dei movimenti armati contribuiranno a far uscire il paese dall'attuale crisi. Hamdok ha riconosciuto il grande impatto del colpo di stato sull'economia delle rimesse dall'estero e assicurato che “il resto del periodo di transizione si concentrerà su questioni di economia, pace e sicurezza, portando a elezioni libere ed eque dopo 18 mesi”. Un appello che però non sembra convincere del tutto l’opinione pubblica. “L’accordo Burhan-Hamdok significa accettare che i militari restino come guardiani del processo politico; e questa è una grave battuta d’arresto”, afferma l’Associazione dei professionisti. A loro parere, “i militari possono decidere di bloccare la transizione in qualsiasi momento. E questo non è ammissibile”.

Filo rosso tra Khartoum e Il Cairo?

In Sudan il golpe militare è arrivato dopo mesi di tensione e recriminazioni tra gruppi militari e civili, coinvolti in un difficile condominio di potere dopo la destituzione nel 2019 dell’ex leader Omar al-Bashir. Da mesi gli apparati militari erano sotto pressione per il progetto di riforma dell’esercito, attraverso cui l’esecutivo guidato da Hamdok avrebbe voluto epurare i tanti vertici delle forze armate rimasti fedeli all’ex regime. A due anni e mezzo dalla caduta di Al Bashir, la riforma delle forze armate era ritenuta non ulteriormente rinviabile se non a costo di pregiudicare l’intero percorso di riorganizzazione dello stato sudanese in cui il ruolo dei militari in ambito politico e, soprattutto, economico è egemonico. Le tensioni hanno riguardato soprattutto le Forze di supporto rapido (Rsf) – organizzazione paramilitare creata dall’ex presidente al Bashir per reprimere le rivolte in Darfur – restie ad essere integrate nell’esercito regolare e a cedere parte del loro enorme potere economico e politico. Varie investigazioni ritengono che le Rsf controllino indirettamente l’80% dell’economia sommersa sudanese. Come nel vicino Egitto – dove secondo il Wall Street Journal al Burhan si sarebbe recato per incontrare il presidente Al Sisi prima del golpe – anche in Sudan le forze armate controllano molte attività strategiche del paese, tra cui il commercio del gas da cucina e l’estrazione mineraria. La totale assenza di trasparenza, inclusa la mancata dichiarazione dei propri profitti nel bilancio dello stato, hanno alimentato le speculazioni sui reali interessi dei vertici militari sudanesi nella transizione democratica.

   

IL COMMENTO

di Sara De Simone, Università di Trento

“Sulla scena politica sudanese pesa, ancora una volta, l’incognita sul ruolo dei militari. Anche dopo il reinsediamento del premier Hamdok, seguito al tentato golpe di ottobre, non sono chiari gli equilibri di potere sanciti dall’accordo che ha permesso al governo di transizione di rimettersi in moto. Dodici ministri del governo di transizione si sono dimessi in segno di protesta contro l'accordo tra Hamdok e i militari e le proteste dei cittadini continuano. In questo contesto c’è il rischio che anche l’attuale premier perda il sostegno dell’opinione pubblica, che non capisce fino a che punto Hamdok riesca a imporsi sui generali e quanto questi ultimi tengano in pugno l’esecutivo. In assenza di figure politiche alternative altrettanto credibili sul piano internazionale, l’erosione di credibilità di quelle attuali potrebbe avere effetti rovinosi sulla stabilità del paese”

ISPI - Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

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