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IL SUDAN GRIDA AL TRADIMENTO
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Dopo il golpe i militari reintegrano il premier Hamdok, ma la piazza non crede all’accordo e denuncia: “Ci avete tradito”.
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Nuove
proteste scuotono il Sudan dove decine di migliaia di manifestanti sono scesi per strada oggi nella
capitale Khartoum per chiedere l’uscita dei militari dalla scena politica del
paese. I manifestanti contestano l’accordo raggiunto dai generali con il
premier Abdallah Hamdok, vittima di un golpe militare nel mese di ottobre
e reintegrato la scorsa settimana nel suo ruolo dagli stessi militari che lo
avevano destituito. Hamdok ha dichiarato di aver accettato di tornare come
primo ministro per riprendere la transizione democratica
e per fermare lo spargimento di sangue dei
giovani sudanesi. Ha affermato anche di voler tutelare i
progressi economici, in un paese alle prese con una crisi economica
disastrosa, messi a segno grazie alle riforme introdotte da quando è
entrato in carica, nel 2019. Ma il
suo reintegro dopo quasi un mese passato agli arresti domiciliari solleva
interrogativi su quale influenza potrà esercitare il governo e quanto questo sarà
manipolato dai militari, guidati dal generale Abdel Fattah al-Burhan. Intanto
nel paese proseguono le violenze: dal colpo di stato del 25
ottobre almeno 41
manifestanti sono stati uccisi e centinaia sono rimasti feriti. I movimenti di
protresta non intendono fare sconti e promettono di non arretrare fino a quando
i militari non accetteranno – come scandisce uno slogan diffuso nelle piazze -
di “lasciare i palazzi e tornare nelle caserme”.
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Un
accordo con molti punti oscuri?
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Siglato
lo scorso 21 novembre dal Consiglio sovrano di transizione guidato dal generale
Abdel Fattah al Burhan, l’accordo prevede il rilascio di tutti politici detenuti dopo il golpe, ma non stabilisce una data per la fine dello stato di emergenza
nazionale annunciato dal generale stesso. Inoltre non fa riferimento agli
equilibri di condivisione del potere stabiliti nell’accordo raggiunto nel 2019.
Per
questo l’intesa – che ha consentito ad Abdallah Hamdok di essere reintegrato – ha
generato più di qualche sospetto. Dodici
dei ministri del governo di transizione si sono dimessi in segno di
protesta e l’intesa è stata respinta dalle forze di opposizione che hanno
accusato Hamdok di “tradimento”. Cosa ancor più preoccupante: l’accordo non ha convinto i cittadini e le sigle
dei movimenti per la democrazia, che hanno promesso di mantenere alta la
pressione sui militari affinché smettano
di interferire con la vita politica del paese. Dopo settimane passate a
brandire la sua immagine per le strade, chiedendone il rilascio, alcuni
manifestanti – riferisce Radio France
Internationale – hanno strappato il suo ritratto,
accusandolo di aver “tradito il sangue dei sudanesi”. Mentre l’Associazione dei
professionisti sudanesi e le Forze della libertà e del cambiamento (Ffc),
alleanze pro-democrazia che hanno svolto un ruolo chiave nella rivolta contro Bashir
prima di diventare la base del sostegno al primo ministro, hanno definito la
sua firma sotto l’accordo un “suicidio politico”.
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“Se il popolo sudanese pensa che l'accordo
non soddisfi i suoi interessi, presenterò
le mie dimissioni”: Abdallah Hamdok spende tutto il suo capitale politico
per convincere l’opinione pubblica sudanese a dargli credito. Ha spiegato che se i
termini dell'accordo saranno applicati rigorosamente, si eviteranno ulteriori
spargimenti di sangue e si conserverà il diritto di manifestare. Il premier ha
poi aggiunto: “L’accordo è arrivato nel quadro del possibile. Certo potrebbe
essere incompleto, ma ci sono molti aspetti positivi che potrebbero aprire la
strada a degli sviluppi e comunque mira a evitare il rischio di scivolare in
una guerra civile”. Ha sottolineato che la formazione di un esercito unificato
e l'assorbimento dei movimenti armati contribuiranno
a far uscire il paese dall'attuale crisi. Hamdok ha riconosciuto il grande
impatto del colpo di stato sull'economia delle rimesse dall'estero e assicurato
che “il resto del periodo di transizione si concentrerà su questioni di
economia, pace e sicurezza, portando a elezioni libere ed eque dopo 18 mesi”. Un
appello che però non sembra convincere del tutto l’opinione pubblica. “L’accordo
Burhan-Hamdok significa accettare che i militari restino come guardiani del
processo politico; e questa è una grave battuta d’arresto”, afferma l’Associazione dei
professionisti. A loro parere, “i militari possono decidere di bloccare la
transizione in qualsiasi momento. E questo non è ammissibile”.
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Filo
rosso tra Khartoum e Il Cairo?
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In Sudan il golpe militare è arrivato dopo mesi di tensione e
recriminazioni tra gruppi militari e civili, coinvolti in un difficile
condominio di potere dopo la destituzione nel 2019 dell’ex leader Omar
al-Bashir. Da mesi gli apparati militari erano sotto pressione per il progetto di riforma dell’esercito, attraverso cui l’esecutivo
guidato da Hamdok avrebbe voluto epurare i tanti vertici delle forze armate
rimasti fedeli all’ex regime. A due anni e mezzo dalla caduta di Al Bashir, la
riforma delle forze armate era
ritenuta non ulteriormente rinviabile se non a costo di
pregiudicare l’intero percorso di riorganizzazione dello stato sudanese in cui
il ruolo dei militari in ambito politico e, soprattutto, economico è egemonico. Le tensioni
hanno riguardato soprattutto le Forze di supporto rapido (Rsf) –
organizzazione paramilitare creata dall’ex presidente al Bashir per reprimere
le rivolte in Darfur – restie ad essere integrate nell’esercito regolare e a
cedere parte del loro enorme potere economico e politico. Varie investigazioni ritengono che le Rsf
controllino indirettamente l’80% dell’economia sommersa sudanese.
Come nel vicino Egitto – dove
secondo il Wall Street Journal al Burhan si sarebbe
recato per incontrare il presidente Al Sisi
prima del golpe – anche in Sudan le forze armate
controllano molte attività strategiche del paese, tra cui il commercio del gas
da cucina e l’estrazione mineraria. La totale assenza di trasparenza, inclusa
la mancata dichiarazione dei propri profitti nel bilancio dello stato, hanno
alimentato le speculazioni sui reali interessi dei vertici militari sudanesi
nella transizione democratica.
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IL COMMENTO
di
Sara De Simone, Università di Trento
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“Sulla
scena politica sudanese pesa, ancora una volta, l’incognita sul ruolo dei
militari. Anche dopo il reinsediamento del premier Hamdok, seguito al tentato
golpe di ottobre, non sono chiari gli equilibri di potere sanciti dall’accordo
che ha permesso al governo di transizione di rimettersi in moto. Dodici
ministri del governo di transizione si sono dimessi in segno di protesta contro
l'accordo tra Hamdok e i militari e le proteste dei cittadini continuano. In
questo contesto c’è il rischio che anche l’attuale premier perda il sostegno
dell’opinione pubblica, che non capisce fino a che punto Hamdok riesca a
imporsi sui generali e quanto questi ultimi tengano in pugno l’esecutivo. In
assenza di figure politiche alternative altrettanto credibili sul piano
internazionale, l’erosione di credibilità di quelle attuali potrebbe avere
effetti rovinosi sulla stabilità del paese”
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