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Il vertice di Glasgow
lascia uno strascico di delusione e distanze siderali tra ‘nord’ e ‘sud’ del
mondo. Dalle scuse per un accordo ‘annacquato’ alla chiosa di Greta Thunberg:
“Bla, bla, bla”.
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Dopo quasi
due settimane di negoziati serrati la conferenza globale delle Nazioni Unite
sui cambiamenti climatici, Cop26, si è conclusa sabato a Glasgow con l’invito ai paesi a
tornare l’anno prossimo in Egitto con obiettivi
di riduzione delle emissioni più ambiziosi e la promessa di raddoppiare
entro il 2025 i finanziamenti ai paesi
più esposti agli effetti del riscaldamento globale. L’accordo finale – il
primo in cui è indicato
esplicitamente un piano per ridurre l’utilizzo del carbone, il combustibile
fossile più inquinante – è da molti giudicato deludente. Le grandi aspettative generate intorno alla Conferenza si sono scontrate con le profonde
distanze che separano i paesi
industrializzati e principali emettitori di CO2, da quelli a basso reddito che si
trovano a fronteggiare gli effetti più dannosi del riscaldamento globale. Se è
vero – come ha sottolineato all’indomani del summit il premier britannico Boris
Johnson – che “il carbone è condannato a morte”, la domanda giusta da porsi è: sì,
ma quando?. Durante l’assemblea conclusiva del vertice, infatti, l’India ha
chiesto e ottenuto di sostituire all’ultimo minuto l’espressione ‘phase-out’, (eliminazione graduale)
del carbone, con ‘phase-down’
(riduzione graduale). Una modifica all’apparenza minima ma che nella sostanza cambia tutto. Il carbone, che doveva essere abbandonato,
sarà solo ridotto. È il frutto di un accordo in extremis
raggiunto tra India, Cina e Stati Uniti, che mette tutti gli altri davanti
a un aut aut. Prendere o far saltare il banco e su cui, dunque, la conferenza ha scelto di ripiegare pur di portare a casa un accordo.
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Visibilmente commosso, al termine di quello che ha
definito un negoziato “molto duro”, il presidente della Cop26 Alok Sharma ha
comunque rivendicato diversi obiettivi
raggiunti, tra cui quello – affatto scontato – di aver “mantenuto vivo l’obiettivo
di contenere le temperature globali al di
sotto degli 1,5°C rispetto ai livelli pre-industriali”. Si tratta di un
passo avanti ma è comunque “un impulso debole – ha ammesso Sharma – che
sopravviverà solo se manterremo i nostri impegni”. Il che significa tagliare
del 45% delle emissioni di CO2 entro il 2030. Ma senza una roadmap condivisa su come e
quanto velocemente ogni nazione dovrebbe tagliare le proprie emissioni nel
prossimo decennio. Il patto di Glasgow per il clima chiede inoltre agli stati
di aggiornare i loro impegni di decarbonizzazione
(Ndc) entro il 2022 e ai paesi ricchi di raddoppiare i finanziamenti per sostenere l'adattamento dei paesi
in via di sviluppo ai cambiamenti climatici. Intanto, però, il traguardo dei
100 miliardi all’anno promessi nel 2009 a Copenaghen – e da allora corrisposti
ma in cifre complessivamente di
molto inferiori –
è posticipato al 2023. Significa
che l’accordo di Cop26 lascia ancora molti paesi in via di sviluppo senza i
fondi di cui hanno bisogno per costruire energia più pulita e far fronte a fenomeni
meteorologici sempre più estremi.
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Questione di finanza
climatica?
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A
Glasgow si è parlato molto anche di
soldi. Una delle principali discussioni è ruotata attorno al se, e come, le
nazioni più ricche del mondo, che sono enormemente più responsabili del
riscaldamento globale, dovrebbero risarcire quelle più povere che sono invece
le più esposte ai danni che quel riscaldamento provoca. È un meccanismo noto
come ‘Loss and damage’ (perdite e danni) e affronta
un tema spinoso di responsabilità
storiche per la perdita di territori nazionali, danni culturali e la
scomparsa degli ecosistemi. Da Glasgow – dopo che all’ultima Cop le discussioni
si erano spinte abbastanza avanti per la creazione di un database e di un
sistema di comunicazione e segnalazione, chiamato Santiago Network – ci si aspettava di uscire
con impegni concreti, un fondo dedicato e dei meccanismi di compensazione. Ma ciò
non è avvenuto e la questione è stata rinviata ai colloqui dell’anno prossimo. In
compenso la conferenza ha raggiunto un accordo sulla regolamentazione
del mercato dei crediti – un sistema di scambio delle emissioni attraverso cui chi inquina di più compensa
chi sfora i limiti – ma i paesi vulnerabili insistono sul fatto che il commercio del carbonio non garantisce una riduzione
progressiva delle emissioni globali.
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All’indomani della conclusione del vertice, la condanna degli ambientalisti, prima
fra tutti Greta Thunberg, è senza appello: “La Cop26 è finita. Ecco un breve
riassunto: Bla, bla, bla. Ma il vero lavoro continua fuori da questi saloni. E
noi non ci arrenderemo mai, mai”, ha scritto su Twitter l'attivista svedese. Prima
dell’inizio dei lavori, il vertice globale sul clima delle Nazioni Unite era
stato definito dagli organizzatori come “l’ultima speranza” per salvare il pianeta.
Eppure, se valutiamo l’esito della Conferenza prendendo in considerazione gli obiettivi dichiarati all’inizio
dei lavori, non possiamo non ritenere che non
sia stata all'altezza delle aspettative. Due punti importanti non sono
stati realizzati: il rinnovo degli obiettivi per il 2030 che si allinea con la
limitazione del riscaldamento a 1,5°C e un accordo sull'accelerazione dell'eliminazione
graduale del carbone. Ma agli insuccessi si sono aggiunte decisioni importanti
e notevoli passi avanti: l’accordo contro la deforestazione, l’intesa Usa-Cina,
il
taglio del 30% alle emissioni di metano. Tuttavia, se anche gli impegni presi
finora venissero rispettati, e non è detto, non basterebbero ad invertire la
rotta: entro il 2100 il mondo sarà comunque più caldo
di 2,7 °C rispetto ai livelli preindustriali. E senza una
road-map condivisa, l’obiettivo di contenimento del riscaldamento
globale entro 1,5 gradi faticosamente “tenuto in vita” a
Glasgow, rischia di rimanere lettera morta.
Quindi, la COP26 è stata un fallimento? “La
realtà è che ci sono due verità diverse”, fa notare Helen Mountford, vicepresidente per il clima e l'economia presso il World Resources
Institute: “Abbiamo fatto molti più progressi di quanto avremmo mai potuto
immaginare solo un paio di anni fa. Ma non è ancora neanche lontanamente
prossimo dall’essere abbastanza”.
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IL COMMENTO
di
Ruben
David, osservatorio geoeconomia ISPI
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"Quando nel 2015 Laurent Fabius, presidente della COP21, sbattendo il martelletto decretò l’adozione dell’accordo di Parigi l’aria di giubilo pervase la stanza. Le lacrime di Alok Sharma, presidente della COP26, segnalano un’aria ben meno gioiosa di fronte all’adozione del Glasgow Climate Pact. Quelle lacrime sono derivate in buona parte dalla decisione di India e Cina di annacquare il testo finale inserendo il verbo “phase down” al posto di “phase-out” in riferimento all’azione che gli stati devono intraprendere rispetto alla fonte energetica più inquinante: il carbone. Considerato che secondo la IEA per raggiungere la neutralità climatica al 2050 il 90% dell’energia dovrebbe provenire da fonti rinnovabili, la decisione finale riguardo al carbone sembra giustificare quelle lacrime di disperazione."
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