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AFGHANISTAN: IL PEGGIO DEVE ANCORA VENIRE
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I Talebani riconquistano oltre un quarto dei distretti
dell’Afghanistan, mentre il vicino Tagikistan accoglie l’esercito regolare in
fuga. Con il progredire del ritiro delle truppe straniere il paese sembra sempre
più instabile.
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L’Afghanistan
si avvia verso il caos. Il ritiro progressivo dei contingenti della NATO ha
innescato la simultanea, ed altrettanto progressiva, riconquista dei
territori da parte dei Talebani, che annunciano di avere sotto il proprio controllo
oltre un quarto del montagnoso ed etnicamente variegato Afghanistan. Una
riconquista che, stando
ad alcuni media, avviene spesso senza scontri e con l’esercito regolare
afgano che consegna spontaneamente le armi. Molti soldati afgani al
confronto militare avrebbero preferito la fuga oltreconfine, in Tagikistan, che
li avrebbe accolti per spirito di “buon vicinato”. La base militare Bagram, il
principale quartier generale dei militari statunitensi e da cui per vent’anni venivano
coordinate le principali operazioni, sarebbe stata abbandonata
dal giorno alla notte senza che il nuovo comandante, il generale afgano Mir
Asadullah Kohistani, ne venisse informato. Un episodio altamente simbolico nel
processo di ritiro delle truppe USA e che lascia intendere che questo verrà
ultimato anche prima del ventesimo anniversario dell’attacco alle Torri
Gemelle, ovvero il termine ultimo fissato dal presidente USA Joe
Biden. L’impressione è che da un lato i Talebani si sentano galvanizzati
dall’imminente ritiro della coalizione internazionale, mentre dall’altro che il
venir meno del supporto logistico e militare fornito dalle truppe
straniere abbia disincentivato l’esercito nazionale afgano, ormai rassegnato. I
Talebani hanno anche riferito
alla BBC che dopo l’11 settembre considereranno occupanti tutte le forze
militari straniere rimaste sul territorio afgano. Più che una minaccia, una
dichiarazione di intenti che vuole onorare gli Accordi di Doha con cui gli
USA si impegnarono al ritiro, e che ora rischia di generare un nuovo vortice
di violenze a livello locale, mentre lo spettro di un ritorno al regime
teocratico torna a far paura.
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Vent’anni
fa, meno di un mese dopo l’attacco dell’11 Settembre, gli Stati Uniti e la NATO
occuparono militarmente l’Afghanistan bersagliando le postazioni talebane e di
Al Qaeda. In un mese, Kabul venne riconquistata dall’Alleanza del Nord –
organizzazione politico-militare supportata dalle truppe NATO – e,
ufficialmente, iniziò la ricostruzione dello stato afgano, delle sue
istituzioni, con l’adozione di una nuova costituzione e le prime elezioni
libere, nonché del suo esercito, sotto l’egida e il supporto della coalizione
occidentale.
Vent’anni dopo, lo stato centrale afgano è più debole che mai, milioni
di cittadini hanno preferito rifugiarsi all’estero, e l’esercito centrale consegna le armi ai
Talebani, forti di un negoziato bilaterale a cui i rappresentanti di Kabul non
hanno nemmeno partecipato e hanno ottenuto ciò per cui hanno combattuto in
questi due decenni: la partenza dei contingenti stranieri. Incalzato in
conferenza stampa da un giornalista lo scorso 4 luglio, Biden ha
glissato l’argomento del ritiro dall’Afghanistan dicendo “è un giorno di
festa, parliamo di cose felici, amico”. La delusione di molti afghani è cocente,
ora che appare sempre più evidente come gli Stati Uniti abbiano fallito nel
garantire una prospettiva di pace, stabilità e sicurezza al multietnico
paese dell’Asia centrale, che rischia una nuova guerra civile e il ripristino
dell’emirato islamico voluto dagli studenti coranici.
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Un segnale della forza della controffensiva talebana sono le
notizie di diserzioni e fughe dalla regione settentrionale a maggioranza
tagika del Badakhshan, dove la resistenza ha tenuto testa ai Talebani per
vent’anni e dove oggi i rappresentanti locali abbandonano le istituzioni
riparando nella capitale Kabul. Quella delle province del Badakhshan è una
conquista militare di grande significato strategico, essendo al confine con
Pakistan, Cina e Tagikistan, e che se venisse completata potrebbe assicurare ai
Talebani il controllo di confini di grande importanza per la geopolitica
dell’Asia centrale.
In generale, con la conquista di oltre cento dei quattrocento distretti
che compongono il paese, i Talebani sono sempre
più focalizzati su una definitiva vittoria militare che culmini con lo
spodestamento del presidente Ashraf Ghani e un ritorno allo stato precedente
all’invasione statunitense. Alla sconfitta sul campo, potrebbe quindi
simultaneamente farsi largo lo smantellamento delle (piccole) conquiste in
senso democratico, sancite anche dalle quattro elezioni presidenziali
tenute dal 2001 ad oggi. E, qualora l’Afghanistan torni ad essere un emirato
islamico, a livello sociale è il futuro della condizione delle donne afgane
ad essere il più incerto, e in particolare quello delle bambine, la cui alfabetizzazione
dal 2001 a oggi è passata dal 20% al 60%. Sebbene i Talebani abbiano
rassicurato che rispetteranno i diritti delle donne in armonia con la legge
islamica, il timore che ci possa essere un lungo passo indietro resta.
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Se militarmente l’Afghanistan si riconferma il pantano
internazionale delle grandi potenze, da cui non riuscì a ricavarne molto
nemmeno l’Unione Sovietica nell’invasione durata dieci anni terminata nel 1989,
una prospettiva di stabilità politica per il paese potrebbe essere data dalla diplomazia
regionale. La Cina, infatti, che con l’Afghanistan confina per pochi
chilometri all’estremità dell’appendice del Badakhshan, osserva attentamente
sia la ritirata statunitense che il progressivo avanzamento talebano. Il
suo interesse principale è la salvaguardia dei progetti infrastrutturali in
Pakistan, un paese chiave sia per la Belt and Road Initiative (BRI) cinese che
per le élite talebane. Secondo alcune
analisi, la strategia di Pechino potrebbe quindi essere duplice.
Qualora i Talebani riprendessero il controllo definitivo del paese, la Cina
potrebbe legittimare la loro leadership politica con l’obiettivo sia di preservare
la sicurezza dei progetti BRI nel vicino Pakistan, sia di monitorare e
contrastare i gruppi di miliziani riconducibili all’ETIM (East Turkestan
Islamic Movement), tra le cui fila potrebbero trovarsi persone accusate da
Pechino di terrorismo nello Xinjiang. Come riporta
il Financial Times, la Cina ha già tenuto incontri con i Talebani e,
sebbene i temi discussi siano rimasti segreti, i cinesi avrebbero saldato
questa strategia regionale offrendo supporto finanziario ai leader talebani per
la ricostruzione delle infrastrutture afgane sfruttando l’intermediazione del
Pakistan, un alleato vitale di Pechino. Una strategia che ad oggi non trova
riscontri ufficiali ma che in un colpo solo avrebbe un grande impatto per le
relazioni internazionali, riconfermando la diplomazia cinese a livello
regionale: assicurerebbe sia che altri gruppi estremisti non prendano il potere
in Afghanistan – come promesso agli USA a Doha –, sia la ricostruzione del
paese dopo vent’anni di guerra.
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IL COMMENTO
Di Giuliano Battiston, giornalista freelance
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"In poche settimane i Talebani si sono assicurati il
controllo di buona parte del nord e nord-ovest del Paese. Una mossa preventiva
per evitare la mobilitazione/resistenza nelle aree tradizionalmente più ostili.
A sorprendere è soprattutto la velocità della disfatta delle forze di sicurezza
afghane, sulle quali si riflette il caos politico nel governo di Kabul. Decine
di migliaia i civili già costretti a lasciare le proprie case, mentre le
capitali della regione guardano con crescente preoccupazione all'offensiva
militare talebana e tentano di fare ripartire il processo negoziale."
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