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ISRAELE: QUALCOSA
È CAMBIATO
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L’accordo per un nuovo
governo in Israele sta per sancire la fine dell’era Netanyahu, e per la prima
volta dalla fondazione dello stato ebraico un partito arabo entra
nell'esecutivo.
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Israele ha un nuovo presidente. E un nuovo governo. Ieri sera, a pochi minuti dallo scadere del mandato
esplorativo, Yair Lapid, leader del partito centrista israeliano Yesh
Atid, ha annunciato di aver trovato una maggioranza con cui governare. La
notizia era nell’aria da giorni ma non ha mancato di
suscitare clamore in Israele e all’estero. L’esecutivo – che la stampa ha già
ribattezzato ‘governo anti-Bibi’ – segnerà infatti la fine della premiership
incontestata di Benjamin Netanyahu, alla guida del paese dal 12 anni.
L’esecutivo, che sarà “a rotazione” – secondo una formula inaugurata dallo
stesso Netanyahu de anni fa – avrà inizialmente come primo ministro Naftali Bennett, leader del partito di
destra Yamina. In base agli accordi, tra due anni Lapid sostituirà Bennett nel
ruolo di premier. Il nuovo esecutivo, estremamente eterogeneo e che vede per la
prima volta nella storia di Israele la
partecipazione di un partito arabo israeliano, dovrà ottenere la fiducia alla
Knesset. La seduta per il voto – che non è ancora stata convocata – potrebbe
avvenire all’inizio della prossima settimana. E non è detto che fino ad allora
non ci siano nuovi colpi di scena. “Qualunque cosa accada – ha commentato il giornalista Anshel Pfeffer – in Israele qualcosa è
cambiato. Un leader di un
partito arabo-israeliano e il leader di un partito nazionalista della destra
ebraica firmano un accordo per unirsi in un governo”.
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La prima volta di un partito arabo?
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I partiti che formeranno la nuova coalizione di governo sono otto, per un totale di 62 seggi, con
orientamenti anche molto diversi tra loro: si va dalla sinistra progressista di
Meretz (6) ai laburisti (7), passando per i partiti centristi Yesh Atid (17)
e Blue e Bianco (8) e arrivando ai tre partiti di destra: Yamina (7), New Hope (6)
e Yisrael Beiteinu (7). E poi – per la prima volta dalla nascita di Israele –
un partito arabo. È Ra’am (4) di Mansour Abbas, vero exploit dell’ultima tornata elettorale, entrato in parlamento
con 4 seggi. Solitamente ai margini
della politica israeliana, l’ultima volta che i partiti arabi avevano dato
un appoggio esterno ad un governo israeliano risale agli anni ’90 con l’allora
premier Yitzhak Rabin. Abbas ha detto ai giornalisti:
“La decisione è stata dura e ci sono state diverse controversie, ma era
importante raggiungere accordi”, aggiungendo che “ci sono molte cose in questo
accordo che andranno a beneficio della comunità araba”. Per poter raggiungere la maggioranza
di 61 seggi necessaria a governare è necessario che tutti i
parlamentari dei partiti sopracitati accettino la formazione dell’esecutivo più eterogeneo della storia di Israele,
il che rende ogni defezione un grave
pericolo per la stabilità.
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A cercare di traghettare
Israele fuori da una instabilità politica durata due anni sarà un nuovo presidente: Isaac
Herzog, eletto con 87 voti su 120, ha
sottolineato l'importanza di costruire “ponti e accordi tra di noi”, ovvero all'interno della società israeliana, e “con i nostri fratelli e sorelle
della diaspora". Nato a Tel Aviv 61 anni fa, Herzog ha assunto la guida
del partito laburista tra il 2013 e il 2017, riportando la questione della pace
con i palestinesi al centro del dibattito pubblico. Politico pacato, ha
accusato il premier Benjamin Netanyahu di aver trascinato il paese “in uno stato d'isteria” isolandolo internazionalmente. Suo
padre Chaim Herzog è stato il sesto presidente d'Israele, e suo
nonno Yitzhak HaLevi Herzog il rabbino capo d'Irlanda e poi il primo
rabbino capo hashkenazita di Israele. L'attuale presidente Reuven Rivlin, che resterà in carica fino al 9 luglio, ha detto di essere “orgoglioso di
passargli il testimone”. Herzog sarà l’undicesimo presidente di Israele.
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Un governo del
cambiamento?
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Se il nuovo governo sancirà
la fine dell’era Netanyahu, non segnerà automaticamente un’inversione
di rotta nell’orientamento
generale della politica israeliana. Il nuovo primo ministro Naftali Bennett è su posizioni più oltranziste dell’attuale premier,
specialmente riguardo all'espansione degli insediamenti
israeliani in territorio palestinese. Il ministro della Difesa Benny Gantz,
che ha appena sovrinteso la guerra a Gaza, dovrebbe mantenere il suo incarico,
mentre Gideon Saar, probabile prossimo ministro della Giustizia, ha abbandonato il Likud solo dopo aver
fallito nel tentativo di spodestare Netanyahu come leader. Nel complesso, il
nuovo esecutivo sarà fortemente
orientato a destra e se sono in pochi ad aspettarsi grandi passi avanti nel
processo di pace con i palestinesi (un tema potenzialmente esplosivo per una
maggioranza di così larghe intese), più o meno tutti concordano sul fatto che l’unico
vero collante della coalizione è il desiderio di spingere Netanyahu – in
attesa di tre processi per corruzione e frode – a farsi da parte. “Ma se ci riusciranno – osserva
Pfeffer sulle colonne di Ha’aretz – la
missione non sarà ancora compiuta perché Netanyahu non andrà da nessuna parte.
Come nuovo leader dell'opposizione, opererà costantemente la caduta del nuovo governo,
pianificando il suo ritorno. Diventando per il nuovo governo al tempo stesso
una minaccia e una risorsa, capace
di tenerlo insieme più a lungo di quanto la
maggior parte degli
osservatori, oggi, sia disposta a prevedere”.
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IL COMMENTO di
Valeria Talbot, Co-Head ISPI MENA Centre
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“Dopo dodici anni sotto la guida di Benjamin Netanyahu Israele
si appresta a voltare pagina. Suo malgrado, il premier uscente è stato
l’artefice della eterogenea coalizione di governo che proprio nell’opposizione
al leader del Likud ha trovato il suo principale collante. E più Netanyahu
cercherà di dare del filo da torcere ai suoi oppositori più contribuirà a
tenere insieme il disparato mosaico di partiti riuniti da Yair Lapid. La strada
della nuova coalizione si presenta in salita. Non solo perché l’attende un voto
di fiducia dal risultato niente affatto scontato, visti i numeri risicati alla
Knesset. Ma anche perché i diversi interessi che in essa confluiscono non
sembrano rappresentare la migliore garanzia di stabilità e durata”.
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