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GERUSALEMME: RAMADAN DI TENSIONI
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Gli scontri a Gerusalemme
tra ultradestra israeliana, palestinesi e forze dell’ordine fanno temere
un’escalation. Ma ad alimentare le tensioni c’è il voto palestinese prossimo al
rinvio.
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Notti di violenza e
scontri a Gerusalemme durante il mese sacro di Ramadan. Nuove tensioni sono
scoppiate nella città santa tra cittadini arabi, forze dell’ordine e l’ultradestra
ebraica. A riaccendere una scintilla che non cova mai abbastanza sotto la
cenere, è stata la decisione – successivamente ritirata – di predisporre
barriere alla Porta di Damasco che dà accesso alla città vecchia, per dosare
l’ingresso dei fedeli musulmani alla spianata delle moschee nel mese di
Ramadan. Ma le ragioni dietro il riacutizzarsi delle tensioni sono molteplici: nei
giorni scorsi c’era stata una marcia dell’organizzazione Lehava, dell’estrema
destra israeliana; il tentativo dei coloni di espropriare alcune case nel
quartiere palestinese di Sheikh Jarrah e la mancata autorizzazione, da parte
delle autorità israeliane, per consentire ai palestinesi di Gerusalemme est di
votare alle elezioni legislative palestinesi, le prime dopo 15 anni, previste
il 22 maggio.
Le violenze hanno
raggiunto intensità tale da portare gli Emirati Arabi Uniti a diramare un
comunicato di condanna, per la prima volta dopo la firma degli accordi di normalizzazione
delle relazioni diplomatiche con Israele lo scorso settembre. E se l’epicentro
degli scontri è il settore orientale della città – occupato da Israele nel 1967
– le tensioni non risparmiano la Striscia di Gaza e la Cisgiordania.
Dall’enclave palestinese è partito un lancio di razzi verso il Negev a cui
l’aviazione israeliana ha risposto con bombardamenti contro le postazioni di
Hamas. Entrambe le offensive non hanno causato vittime, ma l’escalation
potrebbe essere solo all’inizio.
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Nuove accuse contro Israele?
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Tra le ragioni che
agitano le tensioni di questi giorni, c’è una vicenda annosa che riguarda gli espropri di case nei quartieri
palestinesi di Sheikh Jarra e Silwan con l’obiettivo di spaccare il tessuto
urbano e sociale di quella che un giorno dovrebbe diventare la capitale di un
futuro stato palestinese. Si tratta di una pratica che va avanti da anni. In
ballo, in queste settimane, ci sono le
case di 28 famiglie, oltre 500 persone, che rischiano lo sgombero per far
posto ad altrettanti coloni israeliani. A sostegno delle famiglie palestinesi
di Sheikh Jarrah si è pronunciato anche il governo giordano, custode dei luoghi
santi di Gerusalemme e della Città Vecchia, che ha fornito i documenti di proprietà delle case e insieme all’Egitto ha
intimato a Israele di sospendere provocazioni e violenze ai danni dei palestinesi
di Gerusalemme. L’esproprio di Sheikh Jarrah segue la legge israeliana secondo
cui un cittadino ebreo ha il diritto di reclamare le proprietà che tra il 1948
e il 1967 furono assegnate ai palestinesi dalle autorità giordane. Un
palestinese non può fare altrettanto con la sua casa occupata dagli
israeliani. Questa, ed altre politiche di “segregazione”, rientrano in un lungo dossier pubblicato oggi da Human Rights Watch in cui l’organizzazione accusa Israele di essere responsabile dei crimini di apartheid e
persecuzione per “mantenere il dominio degli ebrei israeliani sui
palestinesi”. Accuse “campate in aria” secondo le autorità di Tel Aviv che
hanno definito il dossier “un concentrato di propaganda e falsità”.
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Elezioni palestinesi
verso il rinvio?
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Tra i motivi che
sobillano la rabbia palestinese, anche il fatto che finora le autorità israeliane non hanno autorizzato lo svolgimento del voto
per i palestinesi di Gerusalemme Est. Per la prima volta in 15 anni, infatti,
tre milioni di palestinesi saranno chiamati ai seggi il 22 maggio per le
legislative e il 31 luglio per le presidenziali. Ma il rischio – se la
situazione non si sblocca – è che si debba rinviare o cancellare l’appuntamento
elettorale. Oltre al nuovo leader e i rappresentanti al Consiglio legislativo
di Ramallah, in ballo c’è il futuro del
popolo palestinese, diviso tra Gerusalemme Est, occupata da Israele, la Cisgiordania
governata dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), e la Striscia di Gaza,
controllata dal 2007 dal movimento islamista Hamas. A questo si aggiungono le divisioni in seno ai partiti palestinesi e, in particolare, al partito Al
Fatah che si presenta alle elezioni con tre
liste differenti, a fronte di una lista unica di Hamas. Il silenzio di
Israele sulla vicenda, nonostante le pressioni, è eloquente: a Tel Aviv
preferirebbero essere accusati di aver fatto slittare il voto palestinese
piuttosto che trovarsi ad avere a che fare con Hamas vincitore alle urne. Una
decisione, quella del rinvio, di cui beneficerebbe anche Fatah e lo stesso
presidente Mahmoud Abbas che secondo gli ultimi sondaggi del Jerusalem Media and Communication Centre rischia di perdere consensi e la
presidenza a vantaggio dell’ex popolarissimo leader di Fatah, Marwan Bargouthi,
prigioniero politico in un carcere israeliano, sostenuto dal 33% dei
palestinesi. L’annuncio del rinvio del voto – secondo Associated Press – sarebbe ormai solo questione di
ore. Ma c’è da scommettere che farebbe salire ulteriormente la tensione.
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Questione di realpolitik?
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C’è anche una ragione
tutta interna alla politica israeliana a soffiare sul fuoco delle tensioni a
Gerusalemme. Benjamin Netanyahu non è riuscito a formare una coalizione di governo dopo quattro elezioni inconcludenti
in due anni. Inoltre, il più longevo premier della storia di Israele è sotto
processo. Nel tentativo di assicurare la sua base elettorale si è allineato con
Itamar Ben Gvir, leader del partito estremista Jewish Power, i cui membri
includono il fondatore del movimento Lehava. L’organizzazione aveva indetto la
marcia di giovedì scorso, conclusasi con circa un centinaio di palestinesi e 20
poliziotti israeliani feriti, definendola una marcia per “ripristinare il
controllo ebraico” sulla Porta di Damasco. Non da ultimo, a pesare sugli equilibri
delle prossime settimane, la posizione della nuova amministrazione americana
che secondo fonti di Axios non sarebbe né a favore né contro il
rinvio delle elezioni palestinesi e che avrebbero informato l’ANP che in caso
di una posticipazione “non ci sarebbero
conseguenze”. Una posizione ufficiosamente condivisa da diversi paesi della
regione, Egitto e Giordania in primis, che temono la sconfitta di Fatah e
l’avvento di un governo islamista in Cisgiordania oltre che a Gaza. “Sarebbe
invece un errore tragico – sottolinea Muhammed Shehada su Haaretz – che frustrerebbe con conseguenze
imprevedibili le legittime aspirazioni dei giovani palestinesi”.
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IL COMMENTO
Di Valeria Talbot, Co-Head ISPI MENA Centre
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“Se la volontà dei palestinesi di recarsi al voto
per imprimere una svolta allo stallo politico e alle divisioni è ormai chiara
(il 93% degli elettori si è già registrato), non altrettanto convinta appare la
leadership di Fatah, preoccupata di perdere terreno, e quindi la gestione del
potere, nei confronti tanto dell’opposizione interna quanto di Hamas.Una leadership, quella
del partito maggioritario nell’ANP, che da anni è percepita come sempre più
autoritaria e che i sondaggi danno in evidente calo. Sia che il voto si svolga,
sia che venga rinviato, il dibattito elettorale ha contribuito a riaccendere i
riflettori sul futuro dei palestinesi – questione ultimamente assente sul palcoscenico internazionale – ma imprescindibile per la stabilità dell’intero Medio Oriente”.
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