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27 aprile 2021

GERUSALEMME: RAMADAN DI TENSIONI

Gli scontri a Gerusalemme tra ultradestra israeliana, palestinesi e forze dell’ordine fanno temere un’escalation. Ma ad alimentare le tensioni c’è il voto palestinese prossimo al rinvio.

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Notti di violenza e scontri a Gerusalemme durante il mese sacro di Ramadan. Nuove tensioni sono scoppiate nella città santa tra cittadini arabi, forze dell’ordine e l’ultradestra ebraica. A riaccendere una scintilla che non cova mai abbastanza sotto la cenere, è stata la decisione – successivamente ritirata – di predisporre barriere alla Porta di Damasco che dà accesso alla città vecchia, per dosare l’ingresso dei fedeli musulmani alla spianata delle moschee nel mese di Ramadan. Ma le ragioni dietro il riacutizzarsi delle tensioni sono molteplici: nei giorni scorsi c’era stata una marcia dell’organizzazione Lehava, dell’estrema destra israeliana; il tentativo dei coloni di espropriare alcune case nel quartiere palestinese di Sheikh Jarrah e la mancata autorizzazione, da parte delle autorità israeliane, per consentire ai palestinesi di Gerusalemme est di votare alle elezioni legislative palestinesi, le prime dopo 15 anni, previste il 22 maggio. Le violenze hanno raggiunto intensità tale da portare gli Emirati Arabi Uniti a diramare un comunicato di condanna, per la prima volta dopo la firma degli accordi di normalizzazione delle relazioni diplomatiche con Israele lo scorso settembre. E se l’epicentro degli scontri è il settore orientale della città – occupato da Israele nel 1967 – le tensioni non risparmiano la Striscia di Gaza e la Cisgiordania. Dall’enclave palestinese è partito un lancio di razzi verso il Negev a cui l’aviazione israeliana ha risposto con bombardamenti contro le postazioni di Hamas. Entrambe le offensive non hanno causato vittime, ma l’escalation potrebbe essere solo all’inizio.

Nuove accuse contro Israele?

Tra le ragioni che agitano le tensioni di questi giorni, c’è una vicenda annosa che riguarda gli espropri di case nei quartieri palestinesi di Sheikh Jarra e Silwan con l’obiettivo di spaccare il tessuto urbano e sociale di quella che un giorno dovrebbe diventare la capitale di un futuro stato palestinese. Si tratta di una pratica che va avanti da anni. In ballo, in queste settimane, ci sono le case di 28 famiglie, oltre 500 persone, che rischiano lo sgombero per far posto ad altrettanti coloni israeliani. A sostegno delle famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah si è pronunciato anche il governo giordano, custode dei luoghi santi di Gerusalemme e della Città Vecchia, che ha fornito i documenti di proprietà delle case e insieme all’Egitto ha intimato a Israele di sospendere provocazioni e violenze ai danni dei palestinesi di Gerusalemme. L’esproprio di Sheikh Jarrah segue la legge israeliana secondo cui un cittadino ebreo ha il diritto di reclamare le proprietà che tra il 1948 e il 1967 furono assegnate ai palestinesi dalle autorità giordane. Un palestinese non può fare altrettanto con la sua casa occupata dagli israeliani. Questa, ed altre politiche di “segregazione”, rientrano in un lungo dossier pubblicato oggi da Human Rights Watch in cui  l’organizzazione accusa Israele di essere responsabile dei crimini di apartheid e persecuzione per “mantenere il dominio degli ebrei israeliani sui palestinesi”. Accuse “campate in aria” secondo le autorità di Tel Aviv che hanno definito il dossier “un concentrato di propaganda e falsità”.

Elezioni palestinesi verso il rinvio?

Tra i motivi che sobillano la rabbia palestinese, anche il fatto che finora le autorità israeliane non hanno autorizzato lo svolgimento del voto per i palestinesi di Gerusalemme Est. Per la prima volta in 15 anni, infatti, tre milioni di palestinesi saranno chiamati ai seggi il 22 maggio per le legislative e il 31 luglio per le presidenziali. Ma il rischio – se la situazione non si sblocca – è che si debba rinviare o cancellare l’appuntamento elettorale. Oltre al nuovo leader e i rappresentanti al Consiglio legislativo di Ramallah, in ballo c’è il futuro del popolo palestinese, diviso tra Gerusalemme Est, occupata da Israele, la Cisgiordania governata dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), e la Striscia di Gaza, controllata dal 2007 dal movimento islamista Hamas. A questo si aggiungono le divisioni in seno ai partiti palestinesi e, in particolare, al partito Al Fatah che si presenta alle elezioni con tre liste differenti, a fronte di una lista unica di Hamas. Il silenzio di Israele sulla vicenda, nonostante le pressioni, è eloquente: a Tel Aviv preferirebbero essere accusati di aver fatto slittare il voto palestinese piuttosto che trovarsi ad avere a che fare con Hamas vincitore alle urne. Una decisione, quella del rinvio, di cui beneficerebbe anche Fatah e lo stesso presidente Mahmoud Abbas che secondo gli ultimi sondaggi del Jerusalem Media and Communication Centre rischia di perdere consensi e la presidenza a vantaggio dell’ex popolarissimo leader di Fatah, Marwan Bargouthi, prigioniero politico in un carcere israeliano, sostenuto dal 33% dei palestinesi. L’annuncio del rinvio del voto – secondo Associated Press – sarebbe ormai solo questione di ore. Ma c’è da scommettere che farebbe salire ulteriormente la tensione.

Questione di realpolitik?

C’è anche una ragione tutta interna alla politica israeliana a soffiare sul fuoco delle tensioni a Gerusalemme. Benjamin Netanyahu non è riuscito a formare una coalizione di governo dopo quattro elezioni inconcludenti in due anni. Inoltre, il più longevo premier della storia di Israele è sotto processo. Nel tentativo di assicurare la sua base elettorale si è allineato con Itamar Ben Gvir, leader del partito estremista Jewish Power, i cui membri includono il fondatore del movimento Lehava. L’organizzazione aveva indetto la marcia di giovedì scorso, conclusasi con circa un centinaio di palestinesi e 20 poliziotti israeliani feriti, definendola una marcia per “ripristinare il controllo ebraico” sulla Porta di Damasco. Non da ultimo, a pesare sugli equilibri delle prossime settimane, la posizione della nuova amministrazione americana che secondo fonti di Axios non sarebbe né a favore né contro il rinvio delle elezioni palestinesi e che avrebbero informato l’ANP che in caso di una posticipazione “non ci sarebbero conseguenze”. Una posizione ufficiosamente condivisa da diversi paesi della regione, Egitto e Giordania in primis, che temono la sconfitta di Fatah e l’avvento di un governo islamista in Cisgiordania oltre che a Gaza. “Sarebbe invece un errore tragico – sottolinea Muhammed Shehada su Haaretz – che frustrerebbe con conseguenze imprevedibili le legittime aspirazioni dei giovani palestinesi”.


IL COMMENTO

Di Valeria Talbot, Co-Head ISPI MENA Centre

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Se la volontà dei palestinesi di recarsi al voto per imprimere una svolta allo stallo politico e alle divisioni è ormai chiara (il 93% degli elettori si è già registrato), non altrettanto convinta appare la leadership di Fatah, preoccupata di perdere terreno, e quindi la gestione del potere, nei confronti tanto dell’opposizione interna quanto di Hamas.
Una leadership, quella del partito maggioritario nell’ANP, che da anni è percepita come sempre più autoritaria e che i sondaggi danno in evidente calo. Sia che il voto si svolga, sia che venga rinviato, il dibattito elettorale ha contribuito a riaccendere i riflettori sul futuro dei palestinesi – questione ultimamente assente sul palcoscenico internazionale – ma imprescindibile per la stabilità dell’intero Medio Oriente”.

ISPI - Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

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