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GLI STATI UNITI E L’EUROPA
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L’alleanza
tra Europa e Stati Uniti è stata il cardine su cui ha ruotato l’ordine
internazionale dalla fine della Seconda guerra mondiale. Per Donald Trump,
invece, Bruxelles e le altre capitali europee sono partner tali e quali agli
altri. Quale futuro attende l’alleanza transatlantica?
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Continua
la serie di Focus, in uscita ogni mercoledì, con cui ISPI approfondisce i
principali dossier di politica estera che hanno segnato i 4 anni di presidenza
Trump, provando a farne un bilancio e a tracciare alcuni scenari futuri.
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USA ed
Europa ieri: nella buona e nella cattiva sorte
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Se negli ultimi mesi, parlando del grande piano di rilancio
dell’economia europea preparato dalla Commissione europea, giornalisti e opinione
pubblica
hanno usato spesso l’espressione “nuovo Piano Marshall”, una ragione
evidentemente c’è. La gigantesca iniziativa messa a punto dal Segretario di
Stato americano George Marshall alla fine degli anni ‘40 fu infatti
l’architrave della ricostruzione di un’Europa occidentale devastata dalla Seconda
guerra mondiale e il progetto economico, ma soprattutto politico, su cui si
sono cementati i legami tra le due sponde dell’Atlantico.
Fin da subito, l’impegno statunitense in Europa guarda al
futuro: per Washington non si trattava solo di fornire aiuti
economico-finanziari per stabilizzare il continente, ma di evitare di ripetere l’errore fatto
trent’anni prima, quando le punizioni inflitte alla Germania alla
fine della Prima guerra mondiale avevano creato terreno fertile per la nascita
del nazismo. In definitiva, come ebbe a dire Thomas Mann l’obiettivo era quello
di “creare una Germania europea per evitare di finire con un’Europa tedesca”. Nel bel mezzo dello scontro con
Mosca, una sfida nella sfida.
Per provare a vincerla, Washington è stata fin da subito tra
i principali sostenitori dell’integrazione europea, un progetto centrato
proprio su Germania e Francia, i due grandi nemici storici. Così, nelle varie
fasi di crescita del progetto che diventerà l’Unione europea, il tono e i
messaggi dei presidenti americani sembrano un ritornello, uguali
indipendentemente dal fatto che a sedere nello Studio Ovale sia un democratico o un repubblicano: Stati Uniti ed Europa sono
alleati naturali, condividono valori di libertà e democrazia, sono uniti in
difesa dell’ordine multilaterale liberale. Nel matrimonio transatlantico non
mancano certo momenti di tensione, come quando nel 2003 le capitali europee si
dividono sulla decisione del presidente George W. Bush di invadere l’Iraq. Ma
l’assunto implicito nella mente degli europei è sempre lo stesso: l’Europa
potrà sempre contare sull’aiuto e sulla protezione degli Stati Uniti.
A mettere in discussione questa certezza arriva una
bruciante e inattesa delusione chiamata Barack Obama. Eletto dopo il
periodo complicato della presidenza Bush, Obama appare agli europei come il
potenziale restauratore dell’armonia transatlantica. Ancora da semplice
candidato alla presidenza, Obama era stato accolto a Berlino come una rockstar da una folla di
200 mila persone. Ma leggendo tra le righe dei suoi discorsi e nei racconti del
suo entourage, emerge la figura di un presidente disincantato verso l’Europa,
che ritiene una regione ormai stabile e matura, senza più bisogno
dell’assistenza americana. Per Obama, il presidente nato alle Hawaii e
cresciuto in Indonesia, le priorità
geopolitiche
sono altre: America Latina, Medio Oriente e, soprattutto, Asia. Il
presidente democratico non risparmia parole dure per alcuni alleati europei,
che accusa di incitare gli USA a intervenire
nelle varie aree di crisi per poi evitare di mettersi a loro volta in gioco.
Resta vero che gli USA di Obama lavorano in stretta sintonia con gli alleati
europei per raggiungere obiettivi storici come l’accordo di Parigi sul clima
e il patto sul nucleare iraniano, ma il messaggio di fondo è chiaro: l’Europa non può più dare
per scontato di essere in cima alla lista delle priorità della Casa Bianca.
Se per Obama la relazione transatlantica doveva trasformarsi
in un rapporto più paritario e razionale, è però con l’arrivo a
Washington di un outsider, Donald Trump, che per la prima volta nella storia
gli Stati Uniti mettono in dubbio il valore stesso della relazione.
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Stati
Uniti e UE oggi: i nemici dei miei amici
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Fin dalla campagna elettorale del 2016, Trump lascia
intendere con quali occhi veda l’Unione europea, dipingendola come una macchina “creata per
fare più soldi degli Stati Uniti”. Il nuovo presidente non nasconde poi la
sua poca affinità con la governance multilaterale, le organizzazioni
internazionali e i loro complessi meccanismi decisionali; Bruxelles non fa
eccezione. Così, l’arrivo del magnate alla Casa Bianca coincide con un crollo della fiducia
degli europei verso il presidente USA e scatena reazioni contrastanti: alcuni gridano all’apocalisse
dell’alleanza atlantica, altri sperano che i funzionari dell’amministrazione a
stelle e strisce possano contenere gli eccessi del presidente, in attesa di una
possibile sua sostituzione nel 2020.
Un terzo gruppo di europei, invece, esulta alla notizia:
sono leader, movimenti e partiti populisti ed euroscettici, ai quali
Trump fin da subito strizza l’occhio. Appena eletto, il presidente incontra Nigel Farage, leader del movimento pro Brexit
britannico. Steve Bannon, stratega della sua campagna elettorale, vanta poi
stretti rapporti con vari leader euroscettici europei: Geert Wilders nei Paesi Bassi, Marine Le Pen in Francia, Matteo Salvini e
Giorgia Meloni in Italia. Subito dopo le presidenziali, il premier
ungherese Viktor Orbán si vanta di essere stato tra i primi leader UE ad aver
parlato al telefono con Trump. Per tutta la presidenza Trump rimarranno invece
tesi, nonostante gli sforzi delle diplomazie, i rapporti con la tedesca
Angela Merkel, che indagini
giornalistiche rivelano essere punteggiati da aggressive telefonate del
presidente USA, che svilisce e insulta la cancelliera. Agli ammiccamenti di
Trump verso gli euroscettici arriva a rispondere nel marzo 2017 anche l’allora
presidente della Commissione UE Jean-Claude Juncker, che minaccia come ritorsione di iniziare a
promuovere “l’indipendenza dell’Ohio e la secessione del Texas”.
Le tensioni tra Trump e Bruxelles passano presto dalle
parole ai fatti. Nell’estate 2018, Trump definisce l’Unione europea un “nemico”
commerciale e la include tra i bersagli delle sanzioni introdotte dalla
Casa Bianca sulle importazioni di acciaio e alluminio negli Stati Uniti. L’UE risponde con una serie di contro-tariffe e
ottiene una tregua.
Lo scontro rimane invece accesissimo su politica
industriale ed economia digitale. Inserendosi nella lunga disputa tra
Airbus e Boeing, i giganti dell’aviazione che si accusano
reciprocamente di ricevere aiuti pubblici illegittimi, il presidente Trump
promette nuovi dazi contro l’UE. Davanti
all’iniziativa del
presidente francese Emmanuel Macron per stabilire un regime di tassazione
minima per i proventi dell’economia digitale, la risposta di Washington è, di
nuovo, la minaccia di sanzioni. Quando la Commissaria europea
alla concorrenza Margrethe Vestager multa Apple per aver ricevuto aiuti
di stato dall’Irlanda, Trump la bolla come una “signora delle tasse” che “odia
gli Stati Uniti più di chiunque altro”.
Quello di Trump verso l’Europa è insomma un approccio puramente transazionale, un gioco a
somma zero che non concepisce risultati che possano beneficiare sia Bruxelles
sia Washington. In un mondo che va sempre più verso un nuovo scontro bipolare,
con Stati Uniti e Cina in cerca di alleati, la Casa Bianca dovrà però trovare
validi argomenti per convincere la nuova Unione Europea
“geopolitica” di Ursula von der Leyen che l’asse USA-Europa resta
ancora la scelta migliore.
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Domani:
quali relazioni transatlantiche dopo novembre 2020?
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Trump 2.0:
“L’inverno sta arrivando” Se Trump fosse confermato alla Casa Bianca, è difficile
prevedere se e fino a che punto le relazioni transatlantiche continueranno a
deteriorarsi. I motivi per preoccuparsi sono molti: da una nuova guerra commerciale a
un’ulteriore ritirata statunitense dagli affari europei, che lascerebbe spazio
di manovra a Russia e Cina. Preoccupa anche la possibilità di una “guerra dei
vaccini” tra USA e UE, visto che Trump ha rifiutato di partecipare all’iniziativa guidata da
Bruxelles
per raccogliere fondi internazionali per un vaccino.
Dall’altro lato, con la pandemia Washington e Bruxelles si
sono invece relativamente riavvicinati per quanto riguarda la Cina: come molte
capitali europee, infatti, anche le istituzioni UE sono ora più guardinghe
verso Pechino e hanno aperto all’avvio di un forum di dialogo
tra Stati Uniti e Unione Europea sul tema.
Molto probabilmente, comunque, l’Europa non occuperà la cima
dell’agenda politica di una presidenza Trump 2.0. Presidenza che invece ci si
attende continui a sfruttare il controllo delle infrastrutture di comunicazione
e dei circuiti finanziari su cui si basa l’economia globale per strappare
concessioni dal resto del mondo: è la cosiddetta “weaponized
interdependence” o, più semplicemente, ciò che rimane di una
globalizzazione piegata all’imperativo di “America First”.
Biden: “We
will be back” Con
queste parole Joe Biden aveva rassicurato l’Europa alla Conferenza di Monaco
sulla sicurezza nel febbraio 2019, recuperando i toni tradizionali del dialogo
transatlantico e cercando di mettere una parentesi conclusiva all’esperienza
Trump. Quando il candidato democratico parla dell’Unione europea come di un
alleato fondamentale degli Stati Uniti, lo fa perché il Vecchio Continente
diventerebbe un pilastro della nuova politica estera americana proposta da Biden: una politica di nuovo inclusiva e
multilaterale, in cui gli USA guidino con l’esempio invece di costringere a
seguire con la forza.
L’aiuto europeo servirebbe a una presidenza Biden non solo
per riprendere la lotta in difesa di “beni pubblici globali” come il clima, ma
anche per aiutare l’America nel tentativo di contenere l’aggressività russa e
l’espansionismo cinese. Dossier sui quali, però, le capitali europee non
condividono una linea comune.
Per quanto i rapporti con Washington possano tornare distesi
con un’amministrazione Biden, non cambierebbe comunque il dato di fatto che
vede la regione europea ormai non più determinante sullo scenario internazionale.
I grandi teatri dello scontro geopolitico oggi sono altri. Biden o Trump che sia, lo sguardo USA si concentrerà
altrove e l’Europa, alleata o rivale, dovrà imparare a cavarsela sempre più da
sola.
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È online il nuovo portale dell’ISPI interamente dedicato agli Stati Uniti e alla campagna elettorale #USA2020: approfondimenti, infografiche, video, eventi e sondaggi per scoprire protagonisti e retroscena della corsa alla Casa Bianca.
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ISPI - Istituto per gli Studi di Politica Internazionale Focus a cura di Paolo Magri, Gianluca Pastori, Elena Corradi, Alessia De Luca e Fabio Parola, ISPI
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